A CHORUS LINE apre la nuova stagione del Cineclub Bellinzona di Bologna

Giovedì 20 settembre, alle ore 20.45, riparte la nuova stagione del Cineclub Bellinzona Bologna con lo straordinario ‘A CHORUS LINE’ per la regia di Richard Attenborough, tratto dal musical di James Kirkwood e Nicholas Dante con le musiche di Marvin Hamlisch!

A CHORUS LINE
Richard Attenborough, USA/1985, 113′
vers. originale, sott. italiano
giovedì 20 settembre, ore 20.45
INGRESSO GRATUITO

SINOSSI
Davanti ad un teatro di Broadway si fa la coda, ma non per lo spettacolo: c’è un regista che valuta le capacità di centinaia di danzatori aspiranti ad un posto di fila nei balletti del prossimo “musical”. Il regista (Zach), seminascosto nel buio della platea, sottopone tutti ad una massacrante selezione, dalla quale alla fine escono fuori sedici ballerini. Ma i prescelti saranno otto soltanto, che dovranno accedere alla finalissima ancora con ansie e fatiche incredibili. Zach esige ora che ciascuno parli di sè, della propria vita ed esperienze, motivando il “perché” di una scelta professionale. Intanto è arrivata in teatro Cassie, una ballerina di qualche anno fa (molto brava e innamorata di Zach), che aveva lasciato lui ed il proprio posto di lavoro per andarsene ad Hollywood. Ora ha bisogno di danzare per sbarcare il lunario: essa deve vincere la indifferenza ed il rancore di Zach, che a lei era intimamente legato, ed implorare di ricominciare umilmente in gruppo con gli altri…

 

 

«Chorus Line ci è sembrato un musical piacevole, intelligente, onesto molto più che non le stupidaggini alla Saranno famosi di Alan Parker e alla spazzatura – soprattutto in chiave di danza – che ne è seguita in pratica sino allo scorso anno. Persino la regìa, che pure è di un britannico (cioè di una persona la cui cultura in questo campo è la più legata al music-hall europeo che al musical all’americana), è discretamente calibrata, addirittura buona nella direzione degli attori; del resto Attenborough (1923) è stato attore sin da quando aveva 19 anni (In Which We Serve) in dozzine di film, e, soprattutto nella prima parte, riprende i movimenti di macchina molto ampi e mossi che avevamo visto non tanto nei suoi film «storici» come quello su Churchill o su Gandhi, bensì nella prima, strana, inusitata pellicola di cui curò la regia, Oh, che bella guerra! (1969). Libretto e musica originali, si sa, vengono da un musical che ha tenuto per anni cartellone a Broadway, e Attenborough è riuscito bene nel passaggio dal palcoscenico allo schermo, evitando le luci sgraziate e sensazionalistiche del Robert Wise di West Side Story e lo sfarzo da tempo superato del Gene Kelly di Hello, Dolly! I suoi «ballerini di fila» (traduzione del titolo) hanno la mai troppo benedetta grazia di essere veri e cinematografici al tempo stesso, di figurare evidentemente come caratteri studiati, costruiti e insieme come splendide «unità di spettacolo» sia dal punto di vista personale che da quello professionale. Idealmente Chorus Line è un film in perfetta linea con certo musical americano classico: anche qui una troupe, anche qui uno spettacolo da fare, anche qui caratteri diversificati, anche qui storie e problemi personali. Messa così, sembrerebbe quasi un piccolo classico della Warner anni ’30. Naturalmente le cose stanno in altro modo. Prima di tutto qui tutti sono protagonisti, tutti assurgono al ruolo di attore primario, e nel contempo nessuno emerge come possibile star dello show da farsi (al contrario, una prima ballerina rientra inusitatamente nei ranghi del chorus); poi, il film non tratta dei rapporti fra gli individui e lo spettacolo, ma sviscera i singoli caratteri in funzione di uno spettacolo che non vedremo mai. In questo senso, il film può benissimo proporre l’ultima sequenza moltiplicando a piacere il nucleo base dei quattro più quattro: quello non è lo show che il mostro nell’ombra sta mettendo in piedi, ma soltanto la glorificazione dell’idea stessa di chorus, di quegli umili, indefessi, generosi senza i quali ecc. ecc. Per questo, proprio quel finale – per quanto ammirevole da un punto di vista coreografico e coloristico – è probabilmente la parte più retorica del film; solo, esso ha a suo vantaggio il fatto che, a differenza da altri momenti (ad esempio, la presentazione della figura del portoricano – va da sé che i componenti il chorus siano nell’insieme rappresentativi del calderone etnicogeografico americano: dalle cowgirl del Texas ai gays ebraici di New York, dal negro alla cinese, il film è una sagra in fatto di melting pot), qui la retorica è coperta, traslata, e in ultima istanza richiede un ragionamento per essere individuata.


A prescindere da qualunque altra considerazione, peraltro, il punto di forza della pellicola è nell’idea di fondo che caratterizzava lo spettacolo anche a teatro, l’osservanza delle tre unità aristoteliche relative al dramma: tempo, luogo, azione (sì, anche azione, dal momento che le varie storie relative agli individui componenti il gruppo in realtà vengono riassorbite nell’idea singola e generale che il film fornisce del gruppo stesso come coerente entità). Una serie di piccoli e grandi drammi ha luogo lungo il sentiero della memoria nello spazio ormai fissato per sempre da quell’arco di proscenio che William D’Avenant introdusse nel teatro inglese attorno alla metà del ‘600. Di più: non si tratta di semplice esposizione di fatti con un qualche quoziente di tensione, passione, drammaticità, ecc., bensì di una sorta di apparente gioco di massacro diretto dalla figura – sempre metaforicamente nell’ombra, soprattutto in contrasto alle forti luci della scena, vale a dire di quel che dello spettacolo si vede, del suo smalto, che è la classica punta dell’iceberg – di Mike Douglas (il quale, fra parentesi, se la smettesse di voler essere a tutti i costi suo padre potrebbe anche uscirne discreto attore). Siamo dunque anche in zona di teoria attoriale, nel senso che Chorus Line può essere letto anche come il dramma della necessità tecnica della messa a nudo di se stesso da parte del performer. Comunque, siamo alquanto lontani dal falso realismo sociale del film di Alan Parker (chissà perché, a parte l’ormai penoso Gene Kelly e il manieristico Bob Fosse, sono i britannici oggi a dirigere film musicali in USA), per non dire dell’insopportabile ibrido che fece a suo tempo la fortuna di West Side Story.
Chorus Line, a parte la buona musica di Marvin Hamlisch (Oscar una dozzina d’anni fa per lo score di Come eravamo di Sydney Pollack) e l’ottima sceneggiatura di James Kirkwood (un romanziere di cui vogliamo qui ricordare il notevole Deve esserci un pony, Garzanti), rispolvera i fasti del musical americano nell’unico modo oggi possibile, introiettando il sogno esplicito dello spettacolo classico in quello individuale dei performers, facendo della danza non la simbolica della vita ma una vita simbolica che, al pari dell’altro e più glorioso musical, riesca a cancellare la bruttura e il disordine a favore della bellezza e dell’armonia, la realtà a favore della fantasia.» [Franco La Polla, Cineforum n. 251, 1-2/1986]